fbpx

itenfrdees

Promos Ricerche è un Consorzio senza fini di lucro. SCOPO: La promozione e l’introduzione dell’innovazione in qualsiasi forma e settore. Scopri di più.

Welfare, il Comune di Napoli apre il bando per le Agenzie di Cittadinanza

Welfare, il Comune di Napoli apre il bando per le Agenzie di Cittadinanza

CSV Napoli e Comune di Napoli – Assessorato alle Politiche Sociali, lanciano l’Avviso Pubblico Agenzie di Cittadinanza 2018 con l’obiettivo di valorizzare le buone prassi emerse dalla prime due sperimentazioni e sostenere nuove pratiche di welfare territoriale, ovvero di percorsi di responsabilizzazione competente del territorio a partire dalla comunità non più intesa come bacino di utenza caratterizzato da forme più o meno gravi di disagio, ma come attore sociale che si rende collettivamente capace di analizzare la propria situazione, ne riconosce i bisogni e si mobilita per il cambiamento favorendo il protagonismo dei cittadini.

L’Avviso, che scade il 31 gennaio, si rivolge alle organizzazioni di volontariato della città di Napoli in rete con altri Enti del Terzo Settore, e prevede un finanziamento pari a Euro 530.000.

AdA

Vai al bando

Leggi tutto...

Agevolazioni. Doppi requisiti per i premi in welfare

esenzione fiscaleI premi di risultato e gli utili potenzialmente assoggettabili all’imposta sostitutiva del 10% (articolo 1, commi da 182 a 191 della legge di Stabilità 2016) possono essere convertiti in benefit non soggetti a tassazione entro gli importi massimi stabiliti ai commi 2 e ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 51 del Dpr 917/1986 (testo unico delle imposte sui redditi, Tuir) a seconda dei beni o servizi scelti dal lavoratore.

Per ottenere l’esenzione fiscale e contributiva è dunque necessario che vengano osservate le condizioni e i limiti fissati da ambedue le discipline: quella relativa ai premi agevolati nonché quella sui benefit. Questa - che è una delle più importanti precisazioni contenuta nella recente circolare 28/E dell’agenzia delle Entrate - sembra anche essere la giusta chiave di lettura da utilizzare per evitare insidie ed errori in fase di applicazione della normativa.

I premi di risultato sono assoggettabili a imposta sostitutiva del 10% entro il limite di 2mila o 2.500 euro lordi (quest’ultimo importo nel caso in cui le aziende coinvolgano pariteticamente i dipendenti nell’organizzazione del lavoro) per i soli addetti del settore privato che nell’anno precedente all’incentivo abbiano percepito redditi da lavoro dipendente non superiori a 50mila euro. Inoltre è richiesto che gli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione - sulla base dei quali viene determinato il bonus - siano misurabili, effettivamente realizzati ed erogati in esecuzione di contratti territoriali o aziendali.

I contratti possono prevedere l’erogazione di bonus in denaro, oppure premi convertibili - a scelta del lavoratore e anche solo parzialmente - in benefit (individuati dal comma 2 e dall’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 51 del Tuir), o ancora, tramite concessione di beni e servizi (senza alcuna possibilità di conversione monetaria). Secondo le Entrate (circolare 28/E), tale ultima circostanza è consentita a patto che la politica di welfare adottata dall’azienda non si traduca in un aggiramento degli ordinari criteri di determinazione del reddito da lavoro dipendente, in violazione del principio di progressività dell’imposizione. Purtroppo l’ampiezza della formula usata dall’Agenzia e, di conseguenza, l’incertezza nell’individuazione di specifiche condotte elusive, potrebbe far aumentare il numero di contestazioni da parte del Fisco.

A titolo esemplificativo, il premio di risultato, erogato nel 2016 al lavoratore che nell’anno precedente abbia dichiarato redditi superiori a 50mila euro, non solo non può fruire dell’imposizione sostitutiva del 10%, ma non può neppure giovarsi dell’esenzione da imposta per i beni e servizi da questi eventualmente selezionati in sostituzione del premio. Invece, ove il premio, ad esempio pari a 2mila euro, avesse i requisiti per essere assoggettato all’imposta sostitutiva del 10% e fosse versato interamente agli enti o alle casse aventi esclusivamente fine assistenziale, indicati dall’articolo 51, comma 2, lettera a) del Tuir, lo stesso, in assenza di altri contributi già versati, non sconterebbe alcuna tassazione. Viceversa, nel caso in cui fossero già stati versati 3mila euro di contributi durante l’anno, il premio agevolato potrebbe essere convertito in contributi esenti per un importo non superiore a 615,20 euro, perché la soglia massima prevista dal comma 2, lettera a, è di 3.615,20 euro.

Analogo ragionamento può essere ripetuto per le prestazioni sostitutive di mensa. I dipendenti potranno beneficiare di buoni o indennità sostitutive per importi giornalieri inferiori a quelli indicati alla lettera c del comma 2 (si veda la tabella accanto) e utilizzarli, nel rispetto della normativa, durante la giornata lavorativa, pure se domenicale o festiva. Anche se non esplicitamente indicato nella circolare 28/E, si ritiene che la possibilità di conversione agevolata del bonus riguardi i soli dipendenti che non abbiano a disposizione un servizio di mensa (i ticket sono infatti agevolati se concessi in alternativa ai servizi di mensa; nella circolare 326/E/1997, è stato chiarito che «è, invece, da escludere che lo stesso dipendente, con riferimento alla medesima giornata lavorativa, possa fruire del servizio mensa e utilizzare anche il ticket restaurant».

Infine, in presenza di un premio agevolato pari a 2.500 euro convertito interamente in azioni si avrà che il valore di 2.065,83 euro sarà completamente non imponibile fiscalmente, mentre il residuo, ossia la somma di 434,17 euro, dovrà essere assoggettata a tassazione progressiva.

AdA
fonte Sole24Ore 177/16 SS

Leggi tutto...

Il business del benessere aziendale

welfare aziendaleCresce la sensibilità al welfare nella contrattazione di secondo livello. E le imprese, nella scelta dei servizi da erogare al personale, appaiono sempre più propense a coinvolgere i dipendenti. Ma cosa cercano le aziende che intraprendono questa strada? La risposta è molteplice: c'è chi punta ad aumentare il benessere organizzativo e chi a migliorare la relazione tra azienda e dipendenti, c'è chi al tempo stesso punta a fidelizzare i lavoratori.

Lo rivelano tre recenti indagini che sono andate a scandagliare il complesso e, per certi versi, ancora inesplorato mondo del cosiddetto “welfare 2.0”. Il Rapporto Welfare 2015 di OD&M Consulting, società specializzata di Hr consulting di Gi Group, sul versante B2B ha per esempio ascoltato la voce di un campione di 112 imprese e, su quello B2C, più di 300 addetti appartenenti a diverse tipologie di aziende.

Per scoprire che le imprese che dichiarano di aver inserito un piano welfare nella contrattazione integrativa di secondo livello risultano in crescita (38,2% del campione) rispetto al dato del 2014 (29 per cento). Sulla scelta dei servizi fornire, poi, circa otto aziende su dieci hanno tenuto conto dei bisogni dei dipendenti attraverso una survey, un focus group o un'analisi sociodemografica. La scelta dei servizi è comunque stata effettuata anche considerando l'opportunità di contenimento dei costi, attraverso la preferenza di servizi che possono essere defiscalizzati. Quanto alla tipologia dei servizi implementati dalla maggior parte delle imprese, le aree spaziano dalla ristorazione (89,1% delle aziende), alla cosiddetta “gestione del tempo” (servizi come banca ore, flessibilità in entrata e uscita, job sharing e telelavoro, scelti dal 78,2% del campione), passando per assistenza sanitaria e previdenza (74,5% delle aziende). Più della metà delle aziende che hanno implementato il proprio piano di welfare ha colto poi l'importanza di “differenziare”, creando panieri di servizi per gruppi di popolazioni omogenee. La percentuale di aziende che ha scelto di offrire panieri differenziati è in crescita rispetto all'anno precedente. Il 52% del campione lascia infatti a tutti gli addetti la possibilità di scelta dei servizi più adatti alle proprie esigenze, mentre negli altri casi la possibilità di scelta viene offerta solo ad alcuni gruppi della popolazione aziendale. I dati in questione vanno a integrarsi con quelli di un'altra recente ricerca, realizzata da Luca Pesenti, docente di Organizzazioni sociali e welfare plurale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e promossa da Welfare Company, provider di servizi di welfare aziendale di QUI! Group. Uno studio secondo il quale le aziende che hanno implementato da alcuni anni i piani di welfare, hanno aumentato il numero dei servizi di welfare aziendale (il 52% del campione contempla oltre sei misure a disposizione dei Dipendenti e delle loro famiglie). Sulla scelta dei servizi da erogare interviene anche uno studio che Asam, Associazione per gli Studi Aziendali e Manageriali dell'Università Cattolica di Milano, ha condotto su un campione di 231 imprese in occasione della sesta edizione del Premio Assiteca “La gestione del rischio nelle imprese italiane”, dedicata a fine anno scorso proprio al tema del welfare aziendale (si veda pezzo a fianco).

Fra gli “oggetti” rilevanti del welfare, e dunque fra le aree agevolate, il 73% del consenso degli intervistati va nei confronti di un “pacchetto” composto da sanità, food, famiglia e assicurativo-bancario. Ancillari (tra il 5% e il 7%) risultano gli altri quattro oggetti: wellness, assistenza amministrativa, mobilità, tempo libero. Quali sono state le principali azioni intraprese dalle aziende del campione per realizzare le politiche di welfare? Ai primi posti sono state votate (al 17%) la somministrazione di un questionario per individuare i bisogni e le aspettative dei lavoratori e la proposta di soluzioni flessibili e diversificate per il miglioramento personale, familiare e della sicurezza futura. Seguono subito dopo altre tre azioni (tra il 15% e il 13%): confronto e condivisione con aziende appartenenti a medesime organizzazioni di settore; individuazione dei bisogni primari delle famiglie di operai e impiegati per integrare con politiche di welfare aziendale i salari più bassi; creazione di opportunità per maggiori sinergie tra management e impiegati. Pochi agiscono sia sulla richiesta di una consulenza esterna (10%) che di una valutazione dell'impatto e dei feedback delle politiche di welfare aziendale già attuate (11%). Percorsi di questo tipo sarebbero stati agevolati, tra l'altro, da un budget dedicato e da una metrica del Roi per il welfare.

In proposito le aziende del campione hanno risposto nel 69% dei casi di non avere un budget predisposto al welfare aziendale, nel 31% di averlo. Quanto alle aziende dotate di budget, l'ammontare disponibile è per il 44% tra 10 e 50mila euro, per il 20% tra 0 e 10mila euro, quindi il 64% ha un intervallo di spesa che va da 0 a 50mila euro, il 15% oltre i 250mila euro, il 13% tra i 100 e i 250mila euro e solo l'8% tra i 50 e i 100mila euro. Pochissimi (8%) misurano il Roi. Eppure è tra gli strumenti che offrono il feedback migliore. Una ricerca interessante, questa di Asam, anche perché si sofferma sul contesto che incontra chi intraprende la strada del welfare aziendale. La situazione è percepita per il 48% del campione come “ostile” (così così o pessima) e per il restante 52% “amichevole” (discreta, buona e propositiva). I termini fondamentali che spiegano queste percezioni e che si traggono dall'analisi dei “perché” sono: cultura, fisco, crisi. Mentre le percezioni positive/amichevoli si fondano su parole chiave come diffusione transizionale (del tipo: “siamo sulla buona strada”), consapevolezza (propensione alla valorizzazione del capitale umano), comportamenti imitativi (conoscenza e apprezzamento delle eccellenze).

AdA

fonte Sole24Ore 47/16 F.P.

Leggi tutto...

Anche il welfare nel dna delle imprese. In vigore la nuova legge sull’agricoltura sociale

agricoltura-socialeL'azienda agricola allarga ancora il suo perimetro. Non più solo produzione, trasformazione, commercializzazione, ospitalità in campagna, ma anche fornitura di servizi a 360 gradi, anche nel campo del welfare. Con la nuova legge sull'agricoltura sociale (Legge 18 agosto 2015, n. 141), approvata poco più di un mese fa (in vigore dal 23 settembre 2015), si sono aperti nuovi spazi.

«L'agricoltura sociale è il modello globale del futuro - ha affermato il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, intervenuto il 21 settembre al convegno promosso all'Expo - microcredito e agricoltura sociale non sono questioni secondarie rispetto ai grandi temi della finanza o alla questione alimentare in generale».

«Con questa legge abbiamo raggiunto un doppio risultato nell'interesse dell'agricoltura, a vantaggio della multifunzionalità e del welfare del Paese - ha aggiunto il viceministro Andrea Olivero - Il tema fondamentale è che le attività svolte nell'ambito dell'agricoltura sociale vengono riconosciute attività agricole a tutti gli effetti con la cosiddetta connessione, godendo dello stesso regime fiscale. La tassazione sarà la stessa senza la necessità di aprire posizioni differenti, rientrando nella normale attività agricola nella logica delle multifunzionalità e questo aiuta moltissimo».

«L'agricoltura sociale è la nuova frontiera delle campagne italiane dove - ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo - sono impegnate già oggi oltre mille e cento imprese agricole e cooperative, attorno alle quali gravitano decine di migliaia di rifugiati, detenuti, disabili, tossicodipendenti. Una opportunità che finalmente ha trovato il sostegno di una legge nazionale che definisce una cornice comune, da valorizzare e promuovere anche nei nuovi Psr che accompagneranno lo sviluppo delle aree rurali fino al 2020».

«Questa funzione sociale dell'agricoltura rientra nel concetto di sostenibilità – ha affermato il presidente della Confagricoltura, Mario Guidi – che ogni azienda dovrebbe perseguire, intendendo come tale l'insieme di buone pratiche tese ad uno sviluppo del settore rispettoso dell'ambiente, della collettività ed economicamente valido». Guidi ha anche sottolineato l'impegno delle imprese di Confagricoltura che fanno parte del progetto Ecocloud, la rete delle buona pratiche in cui sono state raccolte, e condivise con le imprese, i consumatori e i trasformatori, esperienze di sostenibilità in campo ambientale, economico e sociale».

«L'azienda agricola non è più sinonimo solo di cibo: oggi - ha detto da parte sua il presidente della Cia, Dino Scanavino - vuol dire anche welfare, uno spazio solidale dove le fasce deboli della popolazione possono costruire nuove relazioni sociali, fare terapia con gli animali o con le piante, ritagliarsi un posto nuovo nel mercato del lavoro. La buona agricoltura svolge da sempre una rilevante funzione sociale: oltre a latte, vino e frutta, produce welfare rigenerativo». L'agricoltura sociale conta oltre mille progetti, con 4 mila addetti e una valore della produzione di 200 milioni. La Cia, è pronta a lanciare nuovi progetti con il sostegno dei fondi dei Psr e lo ha ricordato in un convegno che si è tenuto qualche giorno prima il forum all'Expo. «Tantissime aziende associate alla Cia - ha affermato Scanavino - hanno già avviato e sperimentato questo nuovo modo di fare agricoltura». L'invito è «mettere subito a punto le leggi regionali, prendendo a riferimento le cose buone scritte da quelle Regioni che hanno già legiferato nonché sostenere i vari assessorati regionali a essere i veri protagonisti e non demandare ad altri». La Cia si candida così a un ruolo da protagonista con le Regioni «nella predisposizione dei Psr, nella realizzazione di programmi finalizzati allo sviluppo della multifunzionalità delle imprese agricole».

«La via maestra - secondo il presidente di Fedagri, Giorgio Mercuri - è collaborazione tra chi da sempre svolge attività socio-sanitaria e di assistenza ai soggetti svantaggiati, come ad esempio le numerose cooperative sociali che operano sul nostro territorio, e chi, come l'impresa agricola, ha l'esperienza, la terra e i mezzi per poter mettere una parte della propria azienda al servizio dei più bisognosi».

In casa Confcooperative una critica arriva da Giuseppe Guerini, presidente Federsolidarietà che chiede di «rimettere le mani sulla legge, perché l'effetto paradossale è che l'agricoltura per legge può occupare gli spazi del sociale, mentre il sociale non può fare altrettanto».

AdA

fonte Agricole 24 Set. 01 Ott. 2015

Vai alla Legge 18 agosto 2015, n. 141 (GU Serie Generale n.208 del 8-9-2015) (permalink)

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS